Quella di oggi non è una vera e propria intervista bensì quello che succede quando si danno un tema più o meno libero e un foglio bianco in mano ad un artista, il tema è la paternità, ovviamente e la mente è quella del fotografo, autore e scrittore Roberto Radimir, un pezzo assolutamente da non perdere, così come il suo ultimo libro “Il naso della Sfinge”
Ma cominciamo con la seduta di oggi:
– “Ciao, raccontaci qualcosa di te”
– “Ciao a tutti, mi chiamo Roberto e sono un papà”.
– “Ciao Roberto!”
– “Ho cominciato circa 17 anni fa. Quando ero giovane li vedevo, io, i papà, girare con la carrozzina, con i figli tenuti per mano, comprare coni gelato che venivano leccati per interminabili minuti, lasciando colare cioccolato e pistacchio dal polso al gomito. Padri in affanno alla ricerca di un fazzoletto di carta, e poi un altro e un altro ancora, ché i piccoli mostri non la smettevano di sbavare e lasciar colare crema e panna sul proprio corpo. Uno spettacolo osceno. Non pensavo sarei mai diventato uno di loro. Cercavo di stare attento a non frequentare brutte compagnie. Ho fatto di tutto per evitarlo. Mi sono drogato, ho bevuto, ho vissuto il più pericolosamente possibile, ho preso schiaffi dalla polizia e visitato prigioni in due paesi diversi, ma dovevo immaginare sarebbe successo anche a me. È nel mio DNA. Mio padre era un papà, e lo era anche suo padre e il padre di suo padre. Ci sono cascati tutti e quando ci sei dentro non riesci più a smettere. Ho sentito di gente che lo è rimasta tutta la vita. Mio padre ad esempio, un vero fattone. Quattro volte addirittura. Io una sola, ma è bastata a isolarmi, a farmi vivere felice e ansioso nel mio mondo di papà, facendomi perdere molte amicizie, molte abitudini, qualche vizio e tutta la libertà.
Ammetto che quando ho cominciato mi è piaciuto. All’inizio ne hai paura, non sai se provare o meno, la gente intorno a te si divide in quelli che lo hanno già fatto e quelli che ancora no, per scelta o per mancanza di possibilità e sembrano soddisfatti entrambi, anzi, quelli che non l’hanno fatto sembrano anche più felici. Continuano con gli aperitivi, con le notti in macchina a cercare l’ultimo zozzone che spacci panini salsiccia e peperoni. Stanno svegli tutta la notte e si svegliano poco prima di mezzogiorno.
A pensarci, anche i neo genitori stanno svegli tutta la notte, si svegliano quando possono e passano le notti in macchina a cercare la farmacia di turno, ma non è lo stesso.
Io, ad un certo punto ho deciso di farlo. Oddio, più che decidere di farlo, abbiamo deciso insieme di non fare nulla per non farlo. Abbiamo lasciato decidere a lui, se ne aveva voglia poteva venire a vedere com’è qua fuori e fare la nostra conoscenza, se no andava bene lo stesso. Lo avremmo aspettato.
È successo che ne aveva voglia, a novembre, l’undici/undici del 2000 al Cairo. Sì, perché all’epoca vivevamo in Egitto e dopo 6 mesi eravamo a Tokyo, e dopo 6 anni eravamo a Berlino, dopo 11 a Mumbai, dopo 13 le nostre strade si sono divise, io sono andato a Roma e lui con sua madre tornati in Germania.
A 7 anni ha preso il suo primo aereo da solo, da Berlino a Milano, accompagnato da una hostess e a 13 da Mumbai a Roma, senza accompagnamento.
Ha fatto un asilo internazionale in Giappone, dove parlava inglese, ma una mia amica giapponese mi ha detto che con lei parlava, non benissimo, ma si faceva capire, anche il giapponese e in seguito la scuola bilingue di Berlino, italiano e tedesco e in India quella tedesco/inglese.
Avendo deciso per il metodo “One person, one language” con me parlava italiano, con la madre tedesco e all’asilo inglese.
Una volta, a cena, disse qualcosa in inglese, credo per testarci. Io e sua madre rispondemmo, continuando la conversazione nella lingua che lui per primo aveva cominciato ad usare. Lui si blocca, ci guarda serio e “Perché voi conoscete la lingua dei bambini?”. Secondo lui tutti i papà del mondo parlavano l’italiano, tutte le mamme tedesco e tutti i bambini del mondo parlavano inglese.
Crescere con un bimbo trilingue, quattro da quando a scuola hanno introdotto il francese è un’esperienza senza pari: ti corregge, ride della tua pronuncia, ti fa rimpiangere non aver continuato con la droga, regala tante emozioni che aumentano la pressione e abbassano l’autostima.
Ad essere onesto la “sua” lingua è l’inglese. È la lingua che sente di più, quella con cui preferisce guardare i film, quella con cui scherza, quella che viene per prima quando impreca o insulta.
In fondo aveva ragione lui, l’inglese è la lingua dei bambini. Il tedesco anche, considerando l’origine sassone, ma solo dei bambini cattivi.
E quindi sono qui, padre da 17 anni, con tutte le ansie a le gioie che questa “droga” ti regala. A dire il vero non so neanche perché sono venuto a questo incontro dei Papà Anonimi, forse perché mi manca e continuo a pensarci. Mi manca essere il papà del bambino che pensava che l’inglese fosse la lingua dei bambini, che mi traduceva acqua dal tedesco quando la hostess Lufthansa mi chiedeva cosa volessi da bere, senza sapere che almeno “Wasser”, lo capisco, il bambino che sul letto con un libro in mano mi chiedeva di andare da lui a “ridere” e solo io potevo capire che era l’italianizzazione di “to read”, quello che quando gli regalai la mia Nikon F4s, perché ero passato al digitale, la sollevò, troppo grossa per le sue mani, troppo pesante per le sue braccia con il viso che mostrava lo sforzo, ma gli occhi pieni di orgoglio mi disse: “Ora posso venire in Afghanistan con te!”. Grazie per avermi ascoltato”.
– “Grazie Roberto per aver condiviso”.
Qui di seguito i vari link dove trovare l’ ultima fatica letteraria di Roberto Radimir, un percorso biografico tracciato con sottile ironia, in cui memoria, invenzione e ricerca storica diventano indistinguibili, ma che attraverso ritratti umani, aneddoti, ricette e canzoni ci racconta un mondo affascinante e caleidoscopico in cui religioni, lingue, usi e costumi molto diversi convivevano in perfetta armonia. Un mondo ormai scomparso, che tuttavia si rianima nella memoria e nella ricerca delle proprie origini. Non ve ne pentirete!